Il movimento internazionale di solidarietà con i palestinesi, cominciato con poche persone e
con scarse risorse, è cresciuto fino a diventare una forza percepita da Israele come una seria
minaccia. L’assalto alla flottiglia umanitaria ha rappresentato una escalation letale in quella che
è diventata una campagna sempre più dura contro questo movimento, a cui partecipano oggi
una ampia gamma di attivisti, dai portuali sudafricani che si rifiutano di scaricare merci
israeliane agli studenti di Berkeley che chiedono il disinvestimento.
La brutalità dell’attacco alla flottiglia ha dimostrato fino a che punto la politica israeliana
sia giunta a temere e a detestare questo movimento globale dal basso. In un certo senso, la
violenza ha rappresentato un perverso tributo a un gruppo di attivisti volontari decisamente
inferiore a Israele in quanto a risorse economiche e istituzionali e accesso ai mezzi di
comunicazione, ma che ha tuttavia esercitato su Israele una pressione maggiore di quanto
abbiano fatto i governi più potenti del mondo.
È infatti stata l’ininterrotta collusione di tali
governi con Israele a favorire la nascita di iniziative come la Freedom Flotilla per ristabilire
l’equilibrio. Persone provenienti da società molto diverse sono giunte per molte vie alla
solidarietà internazionale con la Palestina. Quasi sempre il loro impegno per la causa,
un’impegno che ha spinto i passeggeri delle navi ad affrontare simili rischi e a subire punizioni
di questo genere, è espressione di una più ampia aspirazione alla giustizia sociale e soprattutto
della convinzione che questa giustizia debba essere globale per avere significato.
Uno degli
obiettivi principali del fuoco di sbarramento informativo israeliano che ha seguito l’attacco è
stato quello di screditare e dividere questo movimento. Si è cercato in particolare di isolare e
demonizzare un elemento “islamico” o “jihadista” tra gli attivisti (scopo questo preannunciato
dal trattamento particolarmente sadico riservato ai passeggeri identificati come musulmani
dalle forze armate israeliane). La "nave turca" è stata definita la fonte di tutti i problemi. A un
certo punto si è sostenuto che a bordo ci fosse una cellula di "al-Qaeda". È stata diffamata
l’organizzazione umanitaria turca Insani Yardim Vakfi, o IHH. Le persone che in Occidente
nutrono simpatie per i palestinesi venivano avvisate: era coinvolto un genere di
persone con cui non avrebbero mai voluto fare fronte comune.
In Francia purtroppo una parte della sinistra, mossa da un’errata interpretazione del
laicismo, è sembrata essere d’accordo. Si è rifiutata di partecipare a una protesta contro
l’assalto alla flottiglia, sostenendo che tra i partecipanti ci sarebbero stati degli ecclesiastici
musulmani. Con la scusa del rispetto dei valori universali, questo rifiuto ha rappresentato in
realtà una limitazione di questi valori: l’espressione della solidarietà umana è stata
assoggettata a condizionamenti ideologici. Altrove il movimento si è sviluppato abbracciando il
pluralismo. Questo pluralismo ha preso forma non considerando una eccezione i palestinesi,
ma universalizzando la loro lotta, basandosi su un impegno per i diritti umani e per standard
comuni di giustizia. Lungi dal "mettere sotto accusa Israele", come viene in genere sostenuto,
il movimento ha finalmente iniziato a denunciare come sia Israele a mettersi sotto accusa,
chiedendo e ottenendo esenzioni da tali standard.
La varietà dei passeggeri della flottiglia è sempre stata la sua forza, facendo sì che un
circolo molto più allargato di persone si sentisse in qualche modo legato agli avvenimenti nel
Mediterraneo e avesse inoltre accesso a fonti di informazione non controllate dalla linea
ufficiale israeliana. Superando le barriere nazionali, religiose e linguistiche, i passeggeri hanno
rappresentato un pubblico globale in aumento, che si sente obbligato ad agire perché i
rispettivi governi non lo fanno. Come già la variegata delegazione di stranieri che nel 1790 si
era impegnata davanti all’Assemblea Nazionale a sostenere la Rivoluzione francese, essi sono
stati "ambasciatori della ‘razza’ umana". Naturalmente lungi dallo scoraggiare Israele, questa
loro funzione li ha resi una minaccia da contrastare con una dimostrazione di estrema violenza.
Come era prevedibile, portavoce israeliani hanno definito le uccisioni a bordo della Mavi
Marmara una "autodifesa" da parte di soldati israeliani minacciati di "linciaggio." Le discussioni
che ne sono scaturite sulla "violenza" e su chi ne sia responsabile riprendono una lunga
tradizione secondo cui Israele ha classificato come "autodifesa" ogni negazione dei diritti
palestinesi e ogni annientamento di vite palestinesi. Qualsiasi affermazione di tali diritti o
qualsiasi tentativo di preservare quelle vite viene al contrario ritenuto illegittimo e denunciato
come "aggressione" o "terrorismo".
Gli israeliani si inseriscono così in una tendenza di lunga data dei mezzi di
comunicazione occidentali. Uno studio condotto dall’osservatorio dell’informazione Arab Media
Watch sulla stampa britannica mainstream dal gennaio al giugno del 2008 ha riscontrato che
le azioni violente israeliane sono state quasi sempre riportate come “rappresaglie” ad
aggressioni palestinesi. Gli attacchi con i razzi vengono rappresentati come una “provocazione”
a Israele cinque volte più spesso di quanto il blocco di Gaza venga rappresentato come una
provocazione nei confronti dei palestinesi. Quaranta anni di occupazione sono stati descritti
come una provocazione per i palestinesi in una sola occasione e la costruzione di insediamenti
in due casi. Quando sui mezzi di comunicazione mainstream si sviluppa un dibattito, questo
tende a essere imperniato sulla “proporzionalità” dell’azione israeliana, eludendo così le
questioni di fondo dei diritti palestinesi e della dominazione israeliana.
A differenza dei movimenti di solidarietà cresciuti in risposta alle lotte in Vietnam o in
Sudafrica, il movimento palestinese si trova di fronte un avversario con una rete internazionale
propria, che predica una sua forma di solidarietà (con Israele), un vero e proprio movimento,
sebbene conti sull’appoggio statale. La sua retorica e la sua tattica possono essere
estremamente ciniche, ma non se ne può negare il fervore emotivo.
Costruire l’opposizione
all’apartheid sudafricano non ha mai implicato un tipo di scontro sul campo contro avversari
motivati ideologicamente e dalle notevoli risorse come quello che affrontano quotidianamente
gli attivisti pro-palestinesi. La causa palestinese è una calamita per le vittime della
discriminazione e dell’emarginazione, mentre la causa di Israele è una calamita per i
privilegiati, i titolati, i beneficiari della supremazia occidentale e bianca. I ricchi e potenti si
ritengono sotto assedio dei poveri e dei deboli e si riconoscono nell’autoritratto che Israele si
dipinge. Le comunità ‘recintate’ del mondo si stringono intorno alla nazione recintata. L’élite
indiana sempre più benestante – che ha perseguito con forza scambi governativi ed economici
con Israele – considera Israele non solo un alleato nella lotta contro il “terrore islamico”, ma un
passo verso rapporti più stretti con gli Stati Uniti e in senso più ampio un accesso al club
esclusivo dei ricchi e potenti.
Così l’ideologia estremamente particolaristica del sionismo – che si basa
sull’affermazione del possesso eterno di un determinato territorio da parte di un determinato
popolo – diventa una causa di “civiltà” in senso più ampio. Questa ideologia funge da puntello
alla definizione costantemente ampliata di “auto-difesa”. Per coloro i quali l’esistenza di uno
stato basato sulla supremazia ebraica in Palestina è la condizione sine qua non della
sopravvivenza ebraica, qualunque affermazione dei diritti palestinesi è una minaccia
“esistenziale” - una negazione che va a sua volta negata.
Come Stato per tutti gli ebrei, Israele si assume una missione globale e gode di
prerogative speciali. Nel mondo contemporaneo solo gli Stati Uniti rivendicano un concetto più
ampio di autodifesa, ribadendo di poter colpire ovunque per proteggere quelli che considerano i
loro interessi. L’eccezionalità israeliana si vede rispecchiata e legittimata da quella
statunitense, che a sua volta affonda le sue radici nella lunga storia del colonialismo
occidentale, basato per secoli sulla pirateria in alto mare.
Dopo molti anni di educazione, lotte
sociali e organizzazione dal basso, per non parlare della risoluta sfida all’intimidazione, il
movimento di solidarietà ha finalmente cominciato a esercitare un vero effetto sugli equilibri di
potere. Ma è necessario andare ancora molto oltre. Governi di ogni parte del mondo si sono
uniti nella condanna dell’attacco israeliano alla flottiglia, ma molti di questi stessi governi
continuano a fornire a Israele mezzi essenziali per proseguire la distruzione del popolo
palestinese.
In un contesto del genere, coloro che si considerano, nelle parole di Thomas Paine,
"cittadini del mondo" sono chiamati a raddoppiare gli sforzi per garantire il boicottaggio, il
disinvestimento e le sanzioni.
Se Israele continua ad agire con impunità, se è la Palestina invece di Israele ad essere
sottoposta all’isolamento, allora i potenti di ogni luogo vedranno rafforzate le loro possibilità.
Mike Marqusee
The Electronic Intifada, 5 agosto 2010
Questo testo è tratto da Midnight on the Mavi Marmara, disponibile esclusivamente presso OR Books.
Mike Marqusee è autore di If I am Not For Myself: Journey of an Anti-Zionist Jew (Verso).
Traduzione a cura di ISM-Italia:
http://www.ism-italia.org/2010/08/piattaforma-politica-di-viva-palestina-italia/
Testo originale in inglese:
http://electronicintifada.net/v2/article11444.shtml